Non fotografare
- Scritto il Luglio 18, 2017
- Da rocco
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Qualche giorno fa, ascoltando distrattamente la nostra radio regionale, ho sentito leggere il testo che vi ripropongo qui sotto come spunto di riflessione. L’autore è stato Ando Gilardi, nato nel 1921 in provincia di Alessandria. Sono sincero, non lo conoscevo, ho scoperto però essere uno dei personaggi più significativi della fotografia italiana, autore di molti libri, fotografo lui stesso, direttore di riviste, giornalista, fotoreporter, e altro ancora; oltre che fondatore della Fototeca storica nazionale.
Ma aldilà della persona e della sua storia, mi ha molto colpito il contenuto del testo. Si tratta ovviamente di una provocazione, che ha sollevato al tempo della pubblicazione non poche polemiche da parte dei fotografi, soprattutto di quelli che fanno del fotogiornalismo la loro professione. Il documento contiene un allarme, un grido, che cerca di porre inutilmente un limite all’invasività della coltura dell’immagine che ci circonda e che ci sta anestetizzando rispetto ai suoi contenuti violenti. Questa assuefazione ci impedisce ormai una libera e reale reazione di sdegno di fronte all’orrore di ciò che ci viene proposto.
Ando Gilardi: Non fotografare
“Non fotografare gli straccioni, i senza lavoro, gli affamati.
Non fotografare le prostitute, i mendicanti sui gradini delle chiese,
i pensionati sulle panchine solitarie che aspettano la morte come un treno nella notte.
Non fotografare i neri umiliati, i giovani vittime delle droga, gli alcolizzati che dormono i loro orribili sogni. La società gli ha già preso tutto, non prendergli anche la fotografia.
Non fotografare chi ha le manette ai polsi, quelli messi con le spalle al muro, quelli con le braccia alzate, perchè non possono respingerti. Non fotografare la suicida, l’omicida e la sua vittima.
Non fotografare l’imputato dietro le sbarre, chi entra o esce di prigione, il condannato che va verso il patibolo.
Non fotografare il carceriere, il giudice e nessuno che indossi una toga o una divisa. Hanno già soppportato la violenza non aggiungere la tua. Loro debbono usare violenza, tu puoi farne a meno.
Non fotografare il malato di mente, il paralitico, i gobbi e gli storpi. Lascia in pace chi arranca con le stampelle e chi si ostina a salutare militarmente con l’eroico moncherino.
Non ritrarre un uomo solo perchè la sua testa è troppo grossa, o troppo piccola, o in qualche modo deforme. Non perseguitare con i flash la ragazza sfigurata dall’incidente, la vecchia mascherata dalle rughe, l’attrice imbruttita dal tempo. Per loro gli specchi sono un incubo, non aggiungere le tue fotografie. Non fotografare la madre dell’assassino e nemmeno quella della vittima. Non fotografare i figli di chi ha ucciso l’amante, e nemmeno gli orfani dell’amante. Non fotografare chi subì ingiuria: la ragazza violentata, il bambino percosso. Le peggiori infamie fotografiche si commettono in nome del diritto all’informazione. Se è davvero l’umana solidarietà quella che ti conduce a visitare l’ospizio dei vecchi, il manicomio, il carcere, provalo lasciando a casa la macchina fotografica. Non fotografare chi fotografa; può darsi che soddisfi solo un bisogno naturale.
Come giudicheremmo un pittore in costume bohémien seduto con pennelli, tavolozza e cavalletto a fare un bel quadro davanti alla gabbia del condannato all’ergastolo, all’impiccato che dondola, alla puttana che trema di freddo, ad un corpo lacerato che affiora dalle rovine?? Perchè presumi che il costume da free-lance, una borsa di accessori, tre macchine appesa al collo e un flash sparato possano giustificarti?”
Pubblicato il 23 ottobre 2011 da Ilaria Alessia Rutigliano
Paolo
A me pare che la provocazione porti con sé molta verità. Con notevole sgomento, soprattutto negli ultimi anni, ho notato come abbiamo – tutti – sviluppato una specie di insana attrazione per quello che definirò genericamente il “brutto”: che sia una bruttura morale o fisica poco importa.
Il tutto amplificato da una altrettanto insana passione per la condivisione ad ogni costo che acclara esattamente l’opposto e cioè il desiderio narcisistico di apparire. Il contrario di quella che dovrebbe essere una condivisione virtuosa e appagante,
La colpa più grande è dei media, che da sempre fanno della spettacolarizzazione della quotidianità, anche quella che andrebbe solo sussurrata, un modo per guadagnare lettori e quindi risorse economiche. Eticamente è un aspetto che bisogna considerare con attenzione, perché ha risvolti anche non immediati importanti: il media più seguito e popolare potrà, proprio grazie all’usurpata autorevolezza ottenuta, raggiungere un numero di persone enorme e di conseguenza “venderci”, un domani, idee o prodotti che potranno essere definiti di successo solo perché un pubblico inconsapevole ne ha decretato ex ante l’ammissibilità o l’utilità.
E poi io vedo troppi scatti angosciosi con protagonisti disciplinatamente disposti sui terzi come da regoletta per principianti al corso di fotografia.
rossana
Sono completamente d’accordo. La libertà finisce dove l’altro abusa di spazio non concesso.
Ci sono tante belle cose a questo mondo basta solo uscire dal “coro” e avere “più cura di noi e dell’ altro”.
Apriamo gli occhi e pensiamo con la nostra testa.
Ermes
Oltre alla responsabilità conclamata ed enorme dei media, io ci aggiungerei anche l’insana tendenza di un po tutti noi a prodigarsi nel cercare troppo di apparire anziché essere, perdendo di vista punti focali troppo importanti per far si che la società tenti di riscattarsi.
Ad ogni modo, è uno di quei articoli che si spera lascino qualche scia dietro di se.