Vivian Maier, una collezionista di scatti
- Scritto il Dicembre 11, 2017
- Da rocco
- In Autori, Eventi e Mostre, Street photography
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Qualche giorno fa ho partecipato ad una conferenza su Vivian Maier organizzata dall’ottimo Massimo Tommasini e tenuto dall’altrettanto ottima e preparata Cristina Bonadei all’Orto Lapidario nel Castello di San Giusto a Trieste.
Devo dire che conoscevo poco e male questa fotografa nata a New York nel 1926 e morta a Chicago nel 2009. La su attività fotografica è rimasta del tutto sconosciuta finchè John Maloof, anche lui americano, giovane figlio di un rigattiere, nel 2007 volendo fare una ricerca sulla città di Chicago e avendo poco materiale iconografico a disposizione, decise di comprare in blocco per 380 dollari, in un’asta, il contenuto di un box zeppo degli oggetti più disparati, espropriati per legge ad una donna che aveva smesso di pagare i canoni di affitto. Mettendo ordine tra le varie cianfrusaglie (cappelli, vestiti, scontrini e perfino assegni di rimborso delle tasse mai riscossi), Maloof reperì una cassa contenente centinaia di negativi e rullini ancora da sviluppare. Era l’archivio appunto della Maier, un vero tesoro rimasto nascosto fino allora.
Maloof dopo aver visionato il materiale capì di aver individuato un genio della street photography e da li è incominciata la scoperta di questo incredibile personaggio e delle sue vicende personali. Se vi interessa vi consiglio di leggere la ricostruzione della storia di Vivian Maier.
Vivian di professione era una bambinaia un po’ strana, molto probabilmente con alcuni disturbi di tipo ossessivo compulsivo che la rendeva una collezionista dell’inutile. Vestiva in maniera demodè e camminava come un militare, ma queste caratteristiche le permettevano comunque di usare la macchina fotografica magistralmente. Il tesoro fotografico scoperto dal giovane Maloof consisteva in poche stampe, migliaia di negativi e centinaia di rullini non sviluppati!!!! Questo vuol dire che a Vivian interessava solo in parte poter rivedere i propri scatti. Per questo l’ho definita “collezionista di scatti” e non di immagini.
Analizzando gli scatti si capisce inoltre che lei raramente scattava due volte per lo stesso soggetto. Per lei valeva il concetto di “buona la prima”. Ovviamente la street photography difficilmente permette di scattare due volte, ma in molti casi i soggetti erano in posa e ciononostante lo scatto comunque era unico. Questo testimonia la capacità tecnica ed espressiva della donna.
Certo, la vera Vivian Maier non la conosceremo mai, molto di quello che si racconta è appunto una ricostruzione, e l’opera stessa di selezione e di pubblicazione che Maloof ha fatto del materiale acquistato è comunque opinabile dato che risulta un’interpretazione soggettiva. Ma proprio per questo alone di mistero e di indistinto che Vivian risulta così affascinante e interessante.
Non fotografare
- Scritto il Luglio 18, 2017
- Da rocco
- In Autori
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Qualche giorno fa, ascoltando distrattamente la nostra radio regionale, ho sentito leggere il testo che vi ripropongo qui sotto come spunto di riflessione. L’autore è stato Ando Gilardi, nato nel 1921 in provincia di Alessandria. Sono sincero, non lo conoscevo, ho scoperto però essere uno dei personaggi più significativi della fotografia italiana, autore di molti libri, fotografo lui stesso, direttore di riviste, giornalista, fotoreporter, e altro ancora; oltre che fondatore della Fototeca storica nazionale.
Ma aldilà della persona e della sua storia, mi ha molto colpito il contenuto del testo. Si tratta ovviamente di una provocazione, che ha sollevato al tempo della pubblicazione non poche polemiche da parte dei fotografi, soprattutto di quelli che fanno del fotogiornalismo la loro professione. Il documento contiene un allarme, un grido, che cerca di porre inutilmente un limite all’invasività della coltura dell’immagine che ci circonda e che ci sta anestetizzando rispetto ai suoi contenuti violenti. Questa assuefazione ci impedisce ormai una libera e reale reazione di sdegno di fronte all’orrore di ciò che ci viene proposto.
Ando Gilardi: Non fotografare
“Non fotografare gli straccioni, i senza lavoro, gli affamati.
Non fotografare le prostitute, i mendicanti sui gradini delle chiese,
i pensionati sulle panchine solitarie che aspettano la morte come un treno nella notte.
Non fotografare i neri umiliati, i giovani vittime delle droga, gli alcolizzati che dormono i loro orribili sogni. La società gli ha già preso tutto, non prendergli anche la fotografia.
Non fotografare chi ha le manette ai polsi, quelli messi con le spalle al muro, quelli con le braccia alzate, perchè non possono respingerti. Non fotografare la suicida, l’omicida e la sua vittima.
Non fotografare l’imputato dietro le sbarre, chi entra o esce di prigione, il condannato che va verso il patibolo.
Non fotografare il carceriere, il giudice e nessuno che indossi una toga o una divisa. Hanno già soppportato la violenza non aggiungere la tua. Loro debbono usare violenza, tu puoi farne a meno.
Non fotografare il malato di mente, il paralitico, i gobbi e gli storpi. Lascia in pace chi arranca con le stampelle e chi si ostina a salutare militarmente con l’eroico moncherino.
Non ritrarre un uomo solo perchè la sua testa è troppo grossa, o troppo piccola, o in qualche modo deforme. Non perseguitare con i flash la ragazza sfigurata dall’incidente, la vecchia mascherata dalle rughe, l’attrice imbruttita dal tempo. Per loro gli specchi sono un incubo, non aggiungere le tue fotografie. Non fotografare la madre dell’assassino e nemmeno quella della vittima. Non fotografare i figli di chi ha ucciso l’amante, e nemmeno gli orfani dell’amante. Non fotografare chi subì ingiuria: la ragazza violentata, il bambino percosso. Le peggiori infamie fotografiche si commettono in nome del diritto all’informazione. Se è davvero l’umana solidarietà quella che ti conduce a visitare l’ospizio dei vecchi, il manicomio, il carcere, provalo lasciando a casa la macchina fotografica. Non fotografare chi fotografa; può darsi che soddisfi solo un bisogno naturale.
Come giudicheremmo un pittore in costume bohémien seduto con pennelli, tavolozza e cavalletto a fare un bel quadro davanti alla gabbia del condannato all’ergastolo, all’impiccato che dondola, alla puttana che trema di freddo, ad un corpo lacerato che affiora dalle rovine?? Perchè presumi che il costume da free-lance, una borsa di accessori, tre macchine appesa al collo e un flash sparato possano giustificarti?”
Pubblicato il 23 ottobre 2011 da Ilaria Alessia Rutigliano
Ansel Adams dixit
- Scritto il Marzo 16, 2016
- Da rocco
- In Autori, Lettura dell'immagine
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Girovagando tra i vari siti fotografici mi sono imbattuto in una citazione di Ansel Adams che mi ha profondamente colpito per l’imediatezza del concetto e la semplicità del contenuto:
Ho sempre pensato che la fotografia sia come una barzelletta: se la devi spiegare non è venuta bene. (Ansel Adams)
La mia prima reazione è stata di condivisione, anche nel mio piccolo penso che se il fotografo vuole comunicare un messaggio deve cercare di non essere troppo complesso e non esagerare negli elementi da decodificare. Il linguaggio fotografico deve cercare di essere diretto e il più manifesto possibile, altrimenti il messaggio può non arrivare o arrivare in maniera distorta.
Poi però mi sono sorti alcuni dubbi: ma siamo sicuri che una fotografia, come qualunque opera d’arte, debba essere sempre compresa dal pubblico? Io credo di no, rischiamo altrimenti di semplificare troppo e di cadere nel banale. Molto spesso ci troviamo davanti a fotografie che ci colpiscono e ci attirano anche se il messaggio dell’autore non è sempre inteleggibile. In questi casi un alone di mistero avvolge l’opera: “cosa avrà voluto dire l’autore ?”. Ma è proprio questo mistero che rende l’opera affascinante.
Bisogna poi confrontare il livello culturale dell’artista con quello del visitatore. Questo confronto non vuole essere classista ma è innegabile che per nostra fortuna siamo dotati da questo punto di vista di sensibilità diverse. Un segno per essere decodificato deve essere prima riconosciuto e questo dipende dalla profondità culturale e dalla sensibilità emotiva proprie di ogni individuo, quindi, quanto più vasta vuole essere la platea, tanto più “semplice” dovrebbe essere il messaggio.
Infine c’è da dire che non tutti capiscono le barzellette anche quando vengono ben raccontate, ma questo forse è un altro discorso……o no?
Per chiudere faccio delle domande: da fotografi come definite il titolo di un’immagine? Siete soliti aggiungere oltre al titolo anche delle frasi di accompagnamento? Da fruitori di immagini altrui, quanto tempo dedicate alla lettura dell’immagine prima di “giudicarla”?
Su questo argomento, che ritengo interessante, mi piacerebbe sentire la vostra.